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Tentativi al Sud: in Italia si può tornare a coltivare cotone?

Cotone: la pianta più coltivata al mondo per uso non alimentare. Per produrre un chilo di cotone – l’equivalente di una t-shirt e un paio di jeans – servono venti mila litri di acqua
 
La continua richiesta di cotone ne ha modificato la coltivazione. È la pianta più lavorata al mondo per uso non alimentare. Per garantire la sua massima resa, negli anni le coltivazioni di cotone sono state controllate e monitorate attraverso trattamenti con fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, grandi quantità di acqua e defogliazione artificiale. Ciò causa un danno ambientale, una minore fertilità del suolo e un danno fisico per chi lavora nei campi. Per produrre un chilogrammo di cotone, pari alla realizzazione di una t-shirt e di un paio di jeans, sono necessari venti mila litri di acqua. Il cotone organico è un’alternativa che al momento rappresenta solo una piccola percentuale della produzione globale di cotone, ma che punta a diventare lo standard della filiera tessile. Per essere considerato organico il cotone deve essere certificato e controllato in tutte le sue fasi di lavorazione. Non deve provenire da semi geneticamente modificati, non deve essere trattato con materiali inquinanti o dannosi per la pianta o per il suolo, deve rispettare la rotazione delle colture e promuovere un sano ambiente di lavoro. 
Un approccio olistico che risponde agli standard della Better Cotton Initiative, programma mondiale di sostenibilità della filiera che nella scorsa stagione di raccolto ha interessato il ventidue percento della produzione globale. Dalla semina al raccolto, dalla ginnatura (la selezione del cotone subito dopo la raccolta) fino alla tintura. «Il cotone è la fibra che si ottiene dal frutto della pianta quando si ha la maturazione al sole. Le caratteristiche di questa fibra, che poi ne danno il valore e l’utilizzo finale, sono la lunghezza (il tiglio), la finezza (micronaire), la resistenza all’allungamento (pressley), il colore, il grado di impurità e di sporco. La qualità della fibra dipende dal tipo di seme, dal tipo di coltivazione, dall’irrigazione, dall’ambiente in cui è coltivato (che può variare in seguito a temporali o ad un clima troppo caldo). La stessa varietà di fibra può dare raccolti differenti in base a come viene trattato il terreno», spiega Ilario Bregolato, responsabile filatura di Candiani Denim. «La qualità del cotone è alla base, per costruire un filato e un tessuto durevole nel tempo. Nel tessile si è sempre cercato di miscelare il cotone per tenere costanti gli standard qualitativi. Solitamente non si usa un solo tipo di cotone, anche perché la pianta è stagionale – garantire uniformità su una produzione annuale e a livello industriale, richiede la mischia delle fibre di cotone», sottolinea Bregolato.
 

WEBdyeing6COURTESY OF CANDIANI DENIM

 
Le aziende tessili acquistano cotone da diversi Paesi in base alla tipologia di fibra necessaria per il tessuto (finezza maggiore per un filato di pregio, colore bianco per camiceria, resistenza per il denim).  Per questo, controllare tutta la filiera, dai campi all’arrivo delle balle di cotone in azienda è un’operazione complessa. Candiani Denim compra circa diecimila tonnellate di cotone all’anno: «La maggior parte del nostro cotone proviene dal Brasile (oltre il cinquanta percento), poi ci sono il cotone organico dall’India (che proviene da tanti piccoli coltivatori) e quello americano (da coltivazioni del Texas e California). Ci riforniamo anche da coltivatori della Costa D’Avorio e da poco abbiamo anche un nuovo partner in Uganda. È impossibile prendere il cotone nello stesso posto, perché ogni fibra ha caratteristiche diverse», spiega Danielle Arzaga, sustainability manager di Candiani. Uno degli obiettivi dell’azienda è quello di rintracciare l’origine biologica del cotone partendo dalla selezione dei semi. «Il nostro obiettivo è arrivare all’origine di chi coltiva il cotone e utilizzare materie prime non inquinate, organiche. Questo vale anche per le colorazioni e i prodotti chimici utilizzati in tintoria. Abbiamo lavorato alla realizzazione di un seme ibrido (non geneticamente modificato ma ingegnerizzato) pensato per avere un cotone organico fine ma resistente e soprattutto coltivabile in regioni diverse», sottolinea Arzaga, «l’idea è quella di ricavare materie prime che vengono dalla terra per poi riportarle alla terra, per chiudere il cerchio della sostenibilità».
Il cotone per sua natura è una fibra anelastica. Per realizzare denim elasticizzato è necessario abbinare alle fibre di cotone una fibra sintetica derivata dal petrolio come l’elastometro.  Candiani ha trovato un sostituto organico, una gomma naturale, che permette di ottenere la stessa morbidezza ed elasticità del tessuto. Coreva è un tessuto in denim elasticizzato e organico.
Sempre in Lombardia, in provincia di Bergamo, ad Albino, si trova Albini Group, azienda tessile impegnata da cinque generazioni nella produzione di tessuti di alta gamma e primo produttore di tessuti per camiceria in Europa. Dal 2012, in seguito alla necessità di avere un centro di ricerca e di sviluppo per produrre tessuti sempre più fini e controllati è nata la società parallela al gruppo I Cotoni di Albini, che ha chiuso il 2019 con un fatturato di ventotto milioni. «Abbiamo iniziato la ricerca di materie prime direttamente dai coltivatori. Fino ad allora si compravano solo i filati», spiega Daniele Airoldi, amministratore delegato di I Cotoni di Albini. La selezione naturale della materia prima viene fatta proprio per la destinazione d’uso. La camiceria richiede la lavorazione di filati molto fini (con un micronaire elevato). «Questo riduce il bacino di fornitori a pochi. I nostri sono concentrati in tre Paesi: dalla nicchia del Sea Island dei Caraibi, ai pregiati cotoni d’Egitto (Giza 44 e 87) e agli Stati Uniti (Supima). I cotoni organici richiedono un accordo complesso, ci si siede a tavolino e si parla direttamente con il coltivatore. Ci vogliono circa due o tre anni di accordi diretti con il coltivatore per avere cotone organico», spiega Airoldi. Per ottenere la certificazione GOTS (Global Organic Textile Standard) servono almeno tre anni di terreno coltivato a biologico. Semina e raccolta, nel caso dei cotoni egiziani Giza 44 e Giza 87 vengono fatte a mano, il cotone americano invece viene raccolto meccanicamente.
«Il cotone organico è l’evoluzione naturale della produzione di cotone, il percorso di conversione è iniziato ma ci sono tanti vincoli. Bisogna trovare il partner che lo vuole fare e i terreni per farlo, serve un terreno bio. In Jamaica per esempio la produzione biologica non esiste. È difficile trovare semi e terreni senza OGM. Tre anni fa abbiamo iniziato con gli Stati uniti, dove c’è una produzione di food controllata (come pomodoro e aglio) che può essere una base fertile anche per il cotone organico, attraverso la rotazione delle colture. Negli Stati Uniti abbiamo selezionato dei coltivatori che lavorano Supima normale – una qualità di cotone lungo nota per le sue fibre bianche lunghe e sottili –  a cui abbiamo richiesto la conversione. Il primo è stato in New Mexico quattro anni fa, due anni fa ne abbiamo selezionato uno in California e l’anno scorso in Texas. Quest’anno faremo la nostra più grande produzione di cotone organico bianco», racconta Airoldi.
Dopo anni di ricerca per assicurare la tracciabilità del prodotto finito, I Cotoni di Albini ha sviluppato in collaborazione con Supima (associazione di coltivatori americana) e Oritain, leader mondiale nella scienza forense, un’impronta digitale del cotone. L’analisi inizia direttamente con la raccolta di campioni di cotone sul campo d’origine e continua in qualsiasi fase della catena di approvvigionamento. Solo una corrispondenza esatta, in termini di qualità della fibra, potrà dire che il cotone non sia stato sostituito o contaminato. «Noi non vogliamo che l’organico diventi una nicchia, ma che diventi lo standard. L’anno scorso abbiamo prodotto milleduecento balle di cotone, quest’anno millecinquecento», sottolinea Airoldi. 
 

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FILATURA, ALBINI GROUP

 
In parallelo I Cotoni di Albini sta sviluppando un cotone riciclato, il Retwist, che punta a creare un nuovo filato realizzato con cotone rigenerato abbinando una parte di scarto della prima filatura organica a una parte di cotone organico americano. La parte più inquinante nella produzione di filato di cotone è quella della tintura. Albini insieme ad una partnership con Next Innovation Hub (sede nel Kilometro Rosso di Bergamo) sta realizzando test su colori minerali totalmente di origine naturale, derivati da terre di cave italiane ed europee. «Di una pezza sappiamo tutto. È un’esasperazione costosa e impegnativa che ormai è entrata nel nostro dna. Ora non possiamo più tornare indietro e anzi, dobbiamo coltivarla sempre di più», sostiene Airoldi. 
Realizzare filato in cotone organico richiede una spesa maggiore perché la materia prima costa il triplo di quella normale. «Stiamo utilizzando dei cotoni organici che presuppongono che il seme non sia stato modificato all’origine e che la coltivazione non abbia utilizzato pesticidi o alti materiali dannosi. La qualità di cotone organico, in termini di resa della fibra, è ancora bassa rispetto agli standard tradizionali, il prezzo è elevato perché la produzione è minore e i rischi legati alla produttività sono alti», racconta Roberto Bonino, responsabile acquisti e materie prime del Cotonificio Olcese Ferrari. Storico cotonificio fondato nel 1904 nella Valle Camonica bresciana con due stabilimenti produttivi ad Adro e Piancogno. 
Se la ricerca della materia prima è già un percorso articolato, la realizzazione del filo di cotone richiede diversi passaggi. Quando il cotone organico arriva in azienda è diviso in balle di cotone. Queste vengono aperte, i fiocchi di cotone vengono prelevati e divisi dalle macchine in base alla ricetta di miscela che si vuole realizzare. In questa fase il cotone viene pressato e pulito dalla parte impropria ancora presente (come bastoncini, legno o foglie). Poi si passa alla cardatura, fase in cui le fibre vengono indirizzate nella stessa direzione e da cui si ottiene un velo convogliato in nastro. Più nastri vengono uniti e ordinatamente preparati alla pettinatura. La macchina pettinatrice selezionerà le fibre di lunghezza migliore che verranno poi riunite in un unico nastro nello stiratoio. Dopo questi passaggi i nastri riuniti sugli stoppini vengono passati, torti e nuovamente stirati fino al parco fusi, che prepara le bobine per il filatoio, da cui si otterrà il filo di cotone che verrà tessuto. Il cotone del Cotonificio Olcese Ferrari viene acquistato in diverse parti del mondo, in base alla qualità e alle caratteristiche di lunghezza, finezza e resistenza richieste. Dal Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan alla Grecia fino all’Egitto e agli Stati Uniti (California). 
 

 

FILATURA, COTONIFICIO OLCESE FERRARI

 
Perché il cotone non si coltiva in Italia? Fino agli anni settanta il cotone si produceva ancora in Sicilia, e in Capitanata, parte settentrionale della Puglia, poi le coltivazioni sono state interrotte o si sono dedicate alla coltura di cereali, grano, pomodori e barbabietola da zucchero. Michele Steduto e Pietro Gentile, Ingegneri innamorati della loro terra e del passato agricolo dedicato al cotone della Capitanata, hanno deciso di far ripartire la tradizione e iniziare una coltivazione sperimentale di cotone. «Vogliamo creare un’alternativa all’agricoltura della nostra zona e una filiera corta, cortissima di prodotti totalmente italiani», spiega Steduto, amministratore delegato di Gest. Il loro obiettivo è produrre camiceria di alta gamma interamente realizzata con cotone organico coltivato in Puglia, a due passi dal Gargano. «La prima semina è stata fatta l’8 maggio, in pieno lockdown, dopo mesi di ricerca e selezione delle sementi con l’aiuto di agronomi esperti. Abbiamo deciso di seguire tre tipologie diverse provenienti dalla Spagna e dalla Grecia, e la scelta è legata alla possibilità di coltivare con temperature più simili alle nostre. I semi nono sono geneticamente modificati e non sono stati utilizzati fertilizzanti o pesticidi. Abbiamo fatto tre zappature per preparare il terreno. Noi puntiamo ad ottenere la certificazione GOTS ma per ottenerla, seguendo tutti gli standard, ci vogliono almeno dodici o diciotto mesi», spiegano. Tre ettari coltivati che a settembre, tempo di raccolta, dovrebbero fruttare circa centocinquanta quintali di cotone che verrà tessuto, per il momento, da un’altra azienda. 
 

WEBCampi cotone Gest

 

CAMPI DI COTONE GEST

 
«Per realizzare le nostre camicie sartoriali servono otto passaggi a mano. Inizialmente ci consideravano degli alieni. Adesso che il campo è verde, bello e vigoroso la gente si è molto ricreduta. Siamo diventati mezzi umani. Speriamo di diventare umani con il raccolto. L’incoscienza delle volte aiuta e rende le cose possibili, tutti quelli del settore non se la sentivano, noi lo abbiamo fatto. E ora ci stanno osservando, sono tutti in attesa», raccontano.